Recensione (non richiesta) del film La Grande Bellezza, di Paolo Sorrentino. Tra riflessioni e citazioni tratte dal film.
La giornata di ieri si è aperta con questo motivetto "A far l'amore comincia tu, ahah ahah". Mi ci son voluti due minuti per capire che non era un motivo intrappolato nella mia mente dalla sera precedente (ebbene sì anch'io ho ceduto, seguendo il film su piccolo schermo nonostante la pubblicità capace di sporcare ogni cosa!) ma le note partivano davvero dal piano di sopra dei vicini, qualcuno stava rivedendo il film.
La Grande Bellezza, come vado ripetendo dalle prime scene, non è un film per tutti, altrimenti non sarebbe un film di Paolo Sorrentino. La spaccatura di opinioni (banale) tra bello-brutto, chiaro-contorto, e chi ne ha più ne metta era prevedibile, completamente prevedibile (anche questo vedrei bene in una scena del film, il chiacchiericcio e i bla bla bla). Un film così può essere capito solo con un certo background alle spalle, e non mi riferisco alla cultura scolastica, perché quella anche se c'è, è un'altra cosa.
Manca l'allenamento alle cose difficili, abituati come siamo a cose semplici, per non dire demenziali. Il televoto, qualche giudice cattivo per contratto, cose così, che puoi seguire distrattamente mentre riprendi lo smalto sbeccato, per dire.
Tra i tanti commenti letti qualcuno l'ha visto lento. Dove lento sembra un difetto, ed invece la lentezza serve ad evidenziare la pochezza di certe situazioni, grottesche, volgari, prive di qualsivoglia barlume di bellezza. La lentezza è necessaria per cogliere i dettagli, un po' come quando percorri una strada a piedi, e cogli dei particolari che sfrecciando in macchina non avresti notato.
Una regia che si prende il suo tempoè come una lente d'ingrandimento, in questo caso sui difetti, sul senso di vuoto a perdere, lo smarrimento, la solitudine fatta -paradossalmente- di assenza di silenzio, bensì di frastuono e di eccessi; di schiamazzi mentre sei lì, eppure è come se arrivassero da cento stanze accanto.
Tutto il film scorre come su due parallele immaginarie: la grande bellezza da un lato, la grande bruttezza dall'altra.
Non è per nulla casuale la scelta della città di Roma, lo sa bene chi la vive. Una città imponente dinnanzi a monumenti senza tempo e di grande bellezza, che se ne infischiano dei passaggi della gente in metro, in macchina, o mentre affretti il passo al cellulare presa dai soliti discorsi. Gli sei del tutto, completamente indifferente.
"Quando sono arrivato a Roma, a 26 anni, sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che potrebbe essere definito "il vortice della mondanità". Ma Io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire." (Jep Gambardella)
Una città divisa per strati sociali netti, che si ignorano pur somigliandosi nelle meschinità. Feste, party, dove i trenini allegri, sono enormemente tristi e non portano da nessuna parte.
"Sono belli i trenini che facciamo alle feste, vero? Sono i più belli del mondo... perché non vanno da nessuna parte." (Jep Gambardella)
Nella compagine dei trenini c'è un po' di tutto della commedia umana: chi non appartiene a quel mondo e cerca invano di farsi largo, chi sniffa per poi piangere all'alba, chi parla riempindosi di bla bla bla per nascondere meglio le bugie, chi si autocelebra su qualche social con le solite pose, c'è il botulino che riempie le rughe e l'animo di un'idiota vanità, c'è chi crede in qualche santone, detentore di chissà quale lontana saggezza. Alla fine di questo cordone baldanzoso di respiri affannati, c'è Jep Gambardella; ovvero qualcuno che scruta tutto e tutti, senza concedere grazia a se stesso. Uno zoom impietoso che annega in un cocktail di commiserazione, pietas, sdegno, rassegnazione, disincanto ma sempre con un bicchiere dalle mille bollicine in mano.
Attraverso la palpebra cadente di Jep c'è tutto il senso della noia, del vivere giorni senza azioni degne di nota, giorni uguali al precedente, dove il vecchio è meglio del nuovo. Ed è tutto qui.
La rassegnazione è vista come uno sprofondare senza gravità, senza porre alcuna resistenza, un fluttuare in uno spazio vuoto, dove la speranza non esiste (nemmeno la fede è un appiglio), senza pretese verso gli altri e figurarsi per se stessi; dove più che delusi si è deludenti. Questa visione è ben sintetizzata nel monologo affidato a Carlo Verdone (Romano), quando sostiene che: ad Agosto si aspetta Settembre per i buoni propositi, ma poi, questi vengono puntualmente disattesi per pigrizia o disattenzione, di anno in anno, e si finisce per non farne più.
Lasciarsi vivere, quindi, pare la sola cosa da fare con un pizzico di nostalgia, ancor di più per quello che non si è stati.
"Ma cosa avete contro la nostalgia? È l'unico svago che resta a chi è diffidente verso il futuro." (Romano)
Un film sulla decadenza, come un muro che si sgretola pezzo per pezzo ma sempre a ritmo di musica: "a far l'amore comincia tu ahah ahah". Dove l'allegria, il "va tutto bene, in fin dei conti" sembra un loop.
"Le vedi queste persone? Questa fauna? Questa è la mia vita. E non è niente." (Jep Gambardella)
"Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c'è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L'emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell'imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c'è l'altrove. Io non mi occupo dell'altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco. "(Jep Gambardella)